E’ PIU’ IMPORTANTE ESSERE O APPARIRE?

Last Updated: 8 Novembre 2018By

La domanda non è scontata, anche se sentita fare milioni di volte; qui si tratta di capire se conta più il valore della persona, quello professionale intendo, o il suo aspetto fisico. Spiegherò cosa voglio dire ricorrendo ad unaesperienza da me vissuta.

Ho tutta la mattina impegnata in consulenze in uno dei miei studi, la paziente delle 10 è in ritardo e mi sento contrariata, sono molto puntuale e apprezzo tale dote anche negli altri. Sono ferma in piedi davanti alla reception, scambiando qualche parola con la segretaria, quando vedo arrivare una signora, deve essere la mia paziente ritardataria. Si, è lei, si registra e riconosco il cognome

I nostri sguardi si incrociano, io la ricevo con un largo sorriso, mi è facile sorridere e uso abitualmente il potere di questo dono, lei mi individua immediatamente, sono quella col camice bianco!

La risposta al mio sorriso accogliente è un’occhiataccia che mi analizza da capo a piedi, con tanto di movimento della testa, e che esprime almeno tre sentimenti: incredulità, disgusto e stizza. Capisco subito quale sia il problema: la mia taglia decisamente non standard. Dall’età di un anno sono in sovrappeso ed essere un po’ “farcita” è tuttora la mia caratteristica saliente.

Mi avvicino senza diminuire l’intensità del sorriso e le chiedo se sia la mia paziente, lei mi risponde bofonchiando qualcosa e abbassando la testa.

L’accompagno allo studio e la faccio accomodare. Si tratta di una donna dall’aria grigia, spenta, i capelli poco curati, una quindicina di chili in più di quello che il peso tabellare avrebbe indicato per altezza, sesso ed età.

Deve avere tra i quarantacinque e i cinquant’anni, ma la sento sofferente. Le chiedo perché abbia voluto fissare una consulenza e mi risponde che dalla nascita della sua bambina non è riuscita a perdere i chili della gravidanza. Così scopro che ha una figlia di cinque anni e che lei ne ha 38…

Si siede impettita e con le braccia conserte, con l’evidente motivazione di creare una barriera tra lei e me, un gesto di chiusura, a quel punto mi dice, con chiaro tono provocatorio nella voce: “Sono vegana e non intendo essere giudicata! ”

Non so se continuare a sorridere o se assumere un atteggiamento più dottorale, sento che ha ingaggiato con me una sfida e  rispondo: “Cara signora, c’è chi fuma, chi beve, chi si suicida, ognuno fa di se quel che ritiene” e mi poggio allo schienale della sedia con la soddisfazione del tennista che ha fatto punto con una schiacciata. “Lei mi paragona ad un suicida! ” risponde sgranando gli occhi.

Rispondo ironica: “No di certo, dico solo che siamo liberi di scegliere cosa vogliamo essere”. Il colloquio continua tra i miei consigli, le spiegazioni, i suoi sguardi insofferenti e le risposte sgarbate; ogni qualvolta le indico un alimento da escludere o prediligere e lei lo boccia, dicendomi che non le piace o che non intende fare quel che le suggerisco. Tutto questo va avanti per una quindicina di minuti, periodo in cui vedo salire la stizza della signora che, ad un certo momento esplode dicendomi: “Beh, glielo devo proprio dire Dottoressa, mi aspettavo un figurino!!! ”. Il mio sorriso si atteggia a comprensione, come quello di una madre condiscendente nei confronti di un figlio fragile, la fisso e replico: “Se undici anni di università, venticinque di esperienza e tanti pazienti soddisfatti del loro cambiamento non le bastano, è libera di andare in una palestra o in un centro estetico dove bellissimi ragazzi o ragazze, senza qualifica o competenze specifiche ma snelli, le daranno una dieta, con non so quali esiti o conseguenze”.

Poi mi indispongo io per quella infondata ostilità nei miei confronti e pacatamente argomento: Lei non sa nulla di me, del mio vissuto, della mia storia, non può permettersi di giudicarmi; ho perso quaranta chili, e pur pesandone ottanta, mi considero un successo. E poi, sa quale è la differenza tra lei e me? Io sono una donna serena e felice, lei no!.

Non ho più rivisto la paziente…

Si lo so, non è un comportamento da persona di lunga esperienza come sono io, ma mi sono sentita toccata da tanta superficialità e mi viene da pensare: anche nell’ambito professionale, conta più l’apparenza della sostanza?  Se si è in sovrappeso si vale meno come dietologi? Per dire a qualcuno cosa deve mangiare per dimagrire occorre portare la taglia 42?

Comprendo tutto il discorso sul transfer emotivo, sull’emulazione e sul modello da osservare, ma che ne sa, con tutto il rispetto per i colleghi, un tecnico che è normo peso, che non ha avuto compulsioni verso il cibo e che non ha mai dovuto fare attenzione a controllare quel che mangia? Purtroppo io conosco la difficoltà di non rimpinzarsi quando ci si sente inadeguati, stressati, incapaci di canalizzare i sentimenti negativi in altre attività, e il cibo che scende in gola sembra un balsamo lenitivo per i mali dell’anima. Non si è mai sentito dire che è troppo grasso per la salute, che a lungo andare, se non dimagrisce può morire, che l’obesità predispone al cancro, che a cinquant’anni non camminerà più: insomma solo il dentista e l’oculista non mi hanno detto che dovevo dimagrire!

E la responsabilità di questo luogo comune, secondo il quale solo un individuo magro può dire ad uno in sovrappeso che deve perdere peso, è istintivamente compresa nel nostro modo di vivere la forma fisica o la responsabilità è soprattutto dei modelli che la Società ci impone?

Innato desiderio di immedesimarsi, o subdola interferenza del comune senso estetico?

Una cosa è certa, da quel giorno, dall’incontro con la signora intendo, ho iniziato a chiedere ai pazienti se la mia taglia 48 li imbarazza, se sentono sminuita la mia autorevolezza di terapeuta e ho fatto una scoperta molto gratificante: si sentono compresi, capiti e non giudicati!U

In me vedono il segno della stessa sofferenza e della stessa difficoltà che vivono loro e si sentono sostenuti nel percorso. Sanno che il peso tabellare non è la meta sospirata, imparano che il peso ideale è quello che li fa star bene, pur con una taglia in più, e si rendono conto che ci si può riuscire ed essere sereni, in barba all’assunto radicato nel pensare comune, che magro è figo e tondo è meno…

Mara Antonaccio, novembre 2018 – © Mozzafiato

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