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La prima lettera

Al primo grande amore della vita non ho mai voltato le spalle, lo porto ancora con me in una stanza che gli avevo arredato tra la pancia e il cuore.
Quella stanza non l’ho più data a nessuno.
Avevo quattordici anni, a quell’età non sapevo ancora dove andasse messo un amore, cosa gli piacesse mangiare, se dormisse tanto o poco, se preferiva stare solo o in compagnia.
Nel dubbio, tra la pancia e il cuore mi era sembrato il posto migliore.
Era un amore nato d’estate come me, figlio d’acqua e sole, Porto San Giorgio è il mare in cui mi sono fatta le ossa da bambina, da ragazza, da donna, poi è finito tutto.
Aveva nove anni più di me che pesavano come macigni, un gradino che spostava l’asse da me ancora piccola a un quasi uomo.
Amori come quello restano attaccati all’osso della vita perché si fanno incompiuti, potenti nel sogno, eterni perché non trovano una strada, il mio non trovò neppure un bacio. Viveva lontano dalle Marche. Finita l’estate, finiti i batticuori sulla sabbia ogni volta che lo incontravo.
L’estate se ne frega degli amori che mette al mondo sulle spiagge: arrivato l’autunno devi cavartela da sola, fare con quello che hai per tenere in vita sentimenti cagionevoli, soggetti al freddo più degli altri.
Iniziai a scrivergli lettere. Negli anni Ottanta eravamo tutti ancora pieni di grazia verso la vita, sapevamo scrivere su fogli di carta, eravamo ancora capaci di disegnare i sogni da soli, avevamo indirizzi reali e non caselle di posta poggiate dentro server bollenti di temperature ma gelidi di comprensione, soprattutto sapevamo aspettare un postino, correre giù per le scale e aprire la cassetta con le mani tremanti, eravamo in grado – anche da adolescenti – di vivere le delusioni come esperienze e non come fallimenti.
Arriverà domani, mi dicevo ogni volta che richiudevo la cassetta. Arrivò domani e ancora e ancora.
Ci scrivemmo per un inverno intero. Imparai a voler bene al postino come fosse uno di casa.
Non ci fu mai niente tra noi, ero talmente piccola ai suoi occhi che non era il caso o magari non provava per me quello che invece a me toglieva il sonno. Ci volevamo bene, ce ne vogliamo da trentacinque anni, da lontano; ci siamo rivisti tante volte da grandi, in mezzo alle vite che intanto prendevano i nomi e le forme degli uomini e delle donne che in quel momento ci stavano accanto.
Aveva una calligrafia alta come lui.
Me le mangiavo quelle lettere; una volta finite, ricominciavo da capo.
Un giorno pensai che, se non la smettevo di leggerle così, avrei consumato le parole, eroso le gambe delle consonanti, sarebbe caduto giù il testo.
Scriveva delle sue giornate, i suoi vent’anni, mai un cenno a noi due se non nel finale della lettera in cui cedeva ogni volta all’emozione, poi rientrava in sé.
Non ho più provato niente di simile all’attesa delle sue lettere.
Mi ha insegnato ad amare.

Stefania Zolotti, settembre 2024 –  @Mozzafiato

 

La prima lettera (Angelo Morbelli, pittore – dipinto del 1890)

Quando si ricevevano le lettere.
E si leggevano decine di volte.
Sognando ad ogni riga.

(Baldassarre Aufiero) – © Mozzafiato

Qualcuno le scrive ancora
Qualcuna le legge ancora
E sogna l’incubo
d’esser con/di qualcuno
E le cancella
E lo cancella
E si cancella
Per voler restar sola
Come un fantasma.

(Aristocratico anonimo)– © Mozzafiato

Ufficio Stampa


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