“Scene da un matrimonio”
“L’erotica noia borghese”
«Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo» è l’incipit di Anna Karenina, capolavoro di Lev Tolstoj. Tra fede e fedeltà, i rapporti umani codificati tentano di condividere l’incondivisibile, preservando le geografie mortali che abitano, la quotidianità lenta e sfuggente che li soffoca e macella. Le famiglie infelici si stringono la mano, ma non si guardano il volto. I loro animi ignari seguono l’evoluzione del proprio sentire, come bestie cieche in un recinto che finiranno per scontrarsi e, infine, divorarsi.
Era l’aprile del 1973 quando fu messo in onda il primo dei sei episodi della miniserie di 281 minuti Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman e fu subito un successo, tanto che a distanza di un anno il regista ne fece un nuovo montaggio di durata più breve, destinandolo alle sale cinematografiche. Questa versione conquistò un pubblico più vasto sconfinando anche oltre l’Europa e guadagnandosi diversi premi, compreso un Golden Globe come miglior film straniero. Nel 1981 Bergman ne adattò il testo anche per una pièce teatrale che dal 14 marzo è in scena al Teatro Franco Parenti di Milano in un pregevole adattamento di Alessandro D’Alatri, diretto da Raphael Tobia Vogel e interpretato da Fausto Cabra e Sara Lazzaro.
La vicenda ruota attorno ad una coppia: Giovanni, professore universitario di Psicologia di quarantadue anni e Marianna, avvocata divorzista di trentacinque anni. La storia, ambientata in un arco temporale complessivo di diciassette anni, esplora i vari momenti del loro matrimonio, passando dall’apparente felicità iniziale alle numerose crisi che la coppia affronta tra bugie, tradimenti e velleità omicide. L’interpretazione degli attori restituisce appieno la complessità dei personaggi, seppur nella loro staticità che non lascia spazio ad alcuna vera redenzione o stravolgimento complessivo del loro destino, del quale sono più succubi che artefici.
Il palcoscenico è diviso a metà e crea così due ambienti: a sinistra vi è un salotto e a destra una camera da letto. Tale scelta simbolicamente dualista riflette la frattura emotiva all’interno della coppia, aggiungendo così profondità alla rappresentazione e permettendo allo spettatore di immergersi completamente nelle vite dei personaggi.
I sei atti (“Innocenza e panico”; “L’arte di nascondere lo sporco sotto il tappeto”; “Paola”; “Valle di lacrime”; “Gli analfabeti”; “Nel pieno della notte in una casa buia in qualche parte del mondo”) appaiono rimescolati in sequenze disfatte, intervalli brevi che non sanciscono una vera evoluzione sistematica dei personaggi, ma semmai ne definiscono il limite ultimo che li spinge fino ad una breve tensione drammatica in cui amore, sesso e violenza appaiono come un trinomio inscindibile sotto il lungo e vetusto velo della noia. Quella noia che pervade e corrompe l’immaginario borghese, troppo impegnato a lodare il sé castrato e castrante per uscire da sé e scorgere in una coppia altro dal nucleo fondante e stabilito della società, per così dire, civile.
Il linguaggio non evoca una faziosità unanime per un personaggio o l’altro, piuttosto ne denota un disprezzo dell’abitudine che logora e corrode – e nelle immagini linguistiche di Bergman si riferisce sempre a un motivo di fondo: il fantasma tragicomico dell’individualità e della sua avvincente irredimibilità all’interno della coppia. Non c’è società sulla terra piccolo-borghese che non debba fare tutto ciò che è in suo potere per costruirsi all’esterno e distruggersi all’interno. Non c’è parvenza che non sia falsata da pretese irreali, non c’è amore che non sia banale.
Una trama complessa dal meccanismo semplice, un testo brillante per una mise-en-scène discreta. Un finale dimenticabile, come lo è la nostra vicenda quando assistiamo ad un qualcosa che le assomigli. Perché Scene da un Matrimonio fa proprio questo: ci ricorda, senza pretese narcisistiche, che ogni storia è anche la nostra.
Chiara de Stefano, marzo 2024 – © Mozzafiato