La vita, l’amore e la politica
A Roma, città di per sé già caratterizzata da un popolosissimo olimpo di celebrità autoctone, esistono arene estive dove, ancora nel 2022, davanti la proiezione de “Il Postino” (1994) di Michael Radford, un pubblico estremamente eterogeneo, si raccoglie compatto, devoto e stregato dalla sensibilità dell’artista napoletano Massimo Troisi.
È con questa immagine, con lo sguardo emozionato degli spettatori allo scorrere dei titoli di coda al termine dello spettacolo, che si conclude il discorso che Mario Martone realizza intorno al personaggio di Troisi nel suo ultimo film “Laggiù qualcuno mi ama”.
L’opera, attraverso un intreccio di interviste, di immagini, di musicassette registrate per caso, di pagine di diario e, soprattutto, grazie a un coerente montaggio di alcuni estratti dei film di Troisi, riesce a portare avanti una indagine inedita sul processo creativo che ha caratterizzato la carriera di quest’ultimo, sia come Regista che come Autore.
Il documentario, infatti, non vuole essere un puro atto celebrativo, un contenitore (discutibilmente interessante) di dichiarazioni d’amore commosse e nostalgiche, ma piuttosto un’analisi, seppur appassionata, sullo stile cinematografico e sulla genesi delle pellicole realizzate da Troisi.
“È stata un’occasione bellissima di fare Cinema sul cinema di un regista che amo”, dichiara Martone in un’intervista, e difatti, con “Laggiù qualcuno mi ama”, l’autore del film-documentario, realizza, proprio a partire dall’opera di Troisi, una riflessione sul cinema stesso e sul significato di autorialità cinematografica, servendosi anche di paralleli con Truffaut e con il personaggio simbolo del suo cinema, Antoine Doinel, riuscendo così a mettere lo spettatore davanti a un Troisi diverso da quello che aveva conosciuto attraverso i personaggi che l’attore aveva interpretato, “una persona al di sotto delle possibilità” dirà Francesco Piccolo, ma piuttosto davanti un Artista di speciale e indiscutibile grandezza.
Lavinia Colanzi, febbraio 2023 – @Mozzafiato
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Massimo Troisi ha rappresentato, rappresenta e rappresenterà una parte importante della cultura del nostro paese.
Personalmente, la vis comica di Massimo Troisi unita alle note malinconiche della musica blues di Pino Daniele hanno supportato la mia salvezza psichica in un momento importante dell’adolescenza.
Nel lontano 1976, giungo a Milano quattordicenne, dopo quattro anni vissuti a Napoli.
Sia nella vita quotidiana che al Liceo emerse una chiara e determinata difficoltà di comunicazione.
Mi rivolgevo a tutti, dal panettiere al Professore del Liceo con il “Voi” e loro mi guardavano stupiti.
Poi, l’accento napoletano faceva il resto, chiarendo in maniera definitiva da dove provenissi.
All’epoca il terùn era il terùn in tutti i sensi.
Evitato dai milanesi doc e da quelli che, pur non essendo di chiara origine milanese, preferivano non aver nulla a che fare con i meridionali.
Ho vissuto una solitudine senza scampo.
Il successo di
Pino Daniele e di Massimo Troisi è stato per me una forma di riscatto.
Soprattutto è stato per me un sollievo dalla nostalgia di Napoli.
Tre chiari episodi del mio vissuto mi legano a Massimo Troisi.
Quando uscì “Ricomincio da tre”, attesi la fine della programmazione del film in un Cinema d’essai di periferia, per farmi omaggiare la locandina del film esposta all’ingresso.
L’ho appesa nella mia stanza come un poster per anni, quasi fosse una reliquia dal potere taumaturgico.
Il secondo episodio riguarda uno dei miei amori giovanili.
Lei si chiamava Monica, ma io la chiamavo “La fata”, perché a lei non serviva una bacchetta magica, ma solo uno sguardo per trasformarti da rospo a Principe azzurro.
Monica, fanciulla di Rovereto, aveva un potere magico nel suo sguardo: i suoi occhi sorridevano insieme alle sue “ciliegiose” labbra.
Quando ti guardava con più intensità, ti sembrava di essere il ragazzo più bello del mondo.
Quando uscì il secondo film di Troisi: “Scusate il ritardo” – che attendevo impazientemente – saremmo dovuti andare a fare il nostro aperitivo milanese con gli amici, dopo averlo visto.
Io invece preferii restare al cinema e guardare per una seconda e poi terza volta, nella stessa giornata, il secondo film di Troisi.
Lei, quindi, stupita andò via da sola, incredula della mia scelta.
Il terzo e ultimo, riguarda la conferenza stampa tenuta al Cinema Anteo di Milano, da Roberto Benigni e Giuseppe Bertolucci per la presentazione del film fatto con Troisi. ” Non ci resta che piangere”.
Alla fine della conferenza, durante il solito giro di domande di giornalisti, presi coraggio e mi alzai in piedi ponendo questa domanda a Benigni:
“Roberto, sono giunte voci da tecnici, operatori e altre persone presenti durante le riprese del film, che tu sia invidioso di Massimo Troisi. La prima ragione la posso comprendere. Il suo talento artistico è di gran lunga superiore al tuo.
Quella di Troisi è una presenza scenica di un altro livello, nettamente superiore.
Una gestualità mimica del viso che tu non possiedi e cerchi di imitare muovendo nervosamente le mani.
Ma soprattutto la tua invidia nei confronti di Massimo è dovuta al successo che lui ha con le donne e che tu non hai.
Quindi, come sarà possibile produrre un nuovo film insieme, come accennava Bertolucci, esistendo questa dicotomia così evidente?”
Benigni, mi guardò sorridendo, si prese una pausa e poi fingendo di essere arrabbiato disse:
” Questi parenti di Troisi, che vengono sempre alle mie conferenze a provocarmi”.
Ecco, questo è stato Massimo Troisi per il sottoscritto.
Baldassarre Aufiero, febbraio 2023 – @Mozzafiato
P.s. Nei miei sogni cinefili, vorrei che si tornasse indietro nel tempo.
In un tempo dove Massimo Troisi, in un film diretto Da Sergio Leone, interpretasse un vice Sceriffo modesto e anche timido, amante della tranquillità del suo villaggio.
Un vice sceriffo che, dopo aver subito e vissuto la morte violenta della figlia e/o della moglie da parte di alcuni delinquenti, diventasse un golem di vendetta e di fredda ira, vendicandosi con gli assassini dei suoi cari.
Un film che assomigliasse a “Un borghese piccolo piccolo” con Alberto Sordi e diretto da Monicelli, dove l’attore romano interpreta un ruolo completamente diverso dal suo filone della commedia all’italiana, dimostrando e confermando quanto sia vero che un grande attore sia sempre un grande artista, qualsiasi sia il personaggio che impersonifica e il regista che lo dirige.