9750
23 febbraio, una data.
Era il 23 febbraio del 2020; una giornata come tante.
Mi aspettava il turno di notte in ospedale, mi stavo preparando per uscire di casa per recarmi al lavoro; quando il bip del mio cellulare mi segnalava l’arrivo di un messaggio che distolse i miei pensieri. Era il gruppo del reparto, quindi aprii il messaggio per leggerlo. Il capo turno avvisava i turnisti notturni di non andare a lavoro fino a nuova disposizione. Uno dei nostri pazienti sembrava essere stato contagiato dal Covid 19, quindi era stato sottoposto ai test, ma per avere la certezza bisognava aspettare l’esito dei tamponi. Qualche ora più tardi, un altro messaggio avvisava di andare a fare il turno di notte, quindi raggruppai nuovamente le mie cose e mi recai a lavoro. Quando varcai la soglia del reparto mi sembrò di entrare in un’altra dimensione. Il reparto era più buio del solito, c’era silenzio, un silenzio anomalo: era iniziato l’incubo. L’esito dei tamponi era positivo, il nostro paziente aveva contratto il Covid 19. La nostra rianimazione era diventata zona rossa: nessuno poteva entrare e uscire senza autorizzazione. Restammo in turno più di 48 ore, finalmente ci arrivò la conferma che avremmo avuto il cambio. Eravamo stanchi, ci eravamo dati i cambi tra di noi per riposarci e riprendere fiato e lucidità. I nostri cambi arrivarono finalmente, entravano in reparto in tuta protettiva (Ebola). Non avrei mai immaginato di vivere due ondate di infezione Covid 19. A distanza di quasi un anno mi sembra ancora tutto impensabile di averlo vissuto e di viverlo ancora oggi. La chiusura totale, la solitudine dei pazienti e dei loro cari. Fuori dall’ospedale il silenzio tetro del coprifuoco. Le strade deserte, il suono delle sirene e la paura del contagio. Cosa ha lasciato dentro ognuno di noi? In me ha lasciato gli occhi dei pazienti e la loro stretta di mano prima di essere intubati. Ha lasciato la speranza di una promessa non sempre mantenuta di un risveglio. La solitudine della morte e il risveglio alla vita. I sorrisi, le lacrime dei pazienti e dei loro congiunti durante le video chiamate, rese possibili grazie ai tablet donati al nostro reparto. Lascia la speranza della vita e delle piccole cose, il desiderio di un abbraccio. Lascia il vuoto di tutti coloro che non ce l’hanno fatta. Lascia i sorrisi e le lacrime di gioia di chi ha potuto riabbracciare i propri cari ed è ritornato alla vita. Le difficoltà delle famiglie che hanno perso i propri cari, il proprio dolore. Lascia la forza di ricominciare e di respirare finalmente dopo avere annaspato toccando gli abissi. Perché la vita va oltre un semplice respiro…
9750, un numero.
Sembrerebbe un semplice numero, invece è molto di più. Contiene il numero dei vaccini arrivati nel nostro paese, ovvero allo Spallanzani di Roma. Un numero fatto di speranza, di paura, di rinascita. Un numero che racchiude emozioni e lacrime, ma che riapre le porte alla luce, una luce oltre un tunnel dannatamente buio di un anno. Una speranza con uno spiraglio di luce chiamato 9750. In pochi mesi è stato creato un vaccino che sembrerebbe efficace contro il Covid 19. Contiene una molecola denominata RNA messaggero con le istruzioni per produrre una proteina presente nel Covid 19(SARCoV-2) il virus responsabile del Covid. Le proteine prodotte stimolano il sistema immunitario a produrre gli anticorpi specifici. Non è stata comunque saltata nessuna procedura regolare di verifica sull’efficacia e sulla sicurezza del vaccino. Il vaccino è gratuito e sarà effettuato da medici e infermieri esperti nella vaccinazione e nei nosocomi indicati. Le persone che necessitano maggiormente del vaccino sono le persone più a rischio di contagio ovvero le persone con malattie croniche, diabete, tumori, malattie cardio vascolari. Questo è solo l’inizio, in Inghilterra è in fase avanzata lo studio di una medicina con anticorpi monoclonali, che impedirebbe lo sviluppo del Covid 19.
Intanto, io amo questo numero: 9750.